9 agosto 2017. “La meta d’alta quota: lo Stelvio” – 4 passi per le Alpi tour

Tappa 4: Le Prese (SO) (920 m s.l.m.) – San Valentino alla Muta (BZ) (1450 m s.l.m.). Distanza 85 km.

Per la prima volta puntiamo la sveglia alle 7, non per altro, ma la tappa è lunga e abbiamo una salitina da 1800 m di dislivello. Ci congediamo con Ippolito con cui scambiamo sinceri sorrisi, con un po’ di amaro in bocca perché chissà quante altre cose avrebbe voluto raccontarci e che noi avremmo volentieri ascoltato. Dopo l’ennesima foto all’asta idrometrica di Le Prese (è un must, devo fare le foto alle stazioni di monitoraggio Arpa da mandare agli ex-colleghi, e per loro è un indovinello che riescono sempre a risolvere), pedaliamo subito per vincere uno scomodo dislivello.

Incontriamo Ippolito con il pick-up, che si è fermato per offrirci un passaggio almeno per portarci a Bormio dove inizia la salita vera e propria. Gentilmente decliniamo per ovvi motivi di testosterone, e lui apprezza il nostro slancio sportivo. D’altronde, come potevamo dire di sì dopo che ci ha raccontato tutte le sue imprese? Continuiamo e raggiungiamo il termine di questa primo strappo di buongiorno. Sulla nostra sinistra, illuminato dal sole, si apre il fianco della montagna squarciata dalla frana della Valpola del 1987, quella che ha fatto un sacco di disastri e provocato diversi morti. È incredibile come nei nostri ciclotour, Cits e io ci ritroviamo sempre fra fiumi, frane e impianti idroelettrici. Suggestiva e particolare è la vista dell’immensa area franata, illuminata da un raggio di sole e contornata dalla bruma che si alza dalle conifere intorno, immobile nel silenzio del mattino. Ci riprendiamo al passaggio di un camion.

Seguendo la bella ciclabile lungo l’Adda, pedaliamo fino a Bormio dove ne approfittiamo per drogarci di caffè. E poi via! Inizia la salita motivata da una gigantografia del profilo altimetrico della tappa dell’ultimo giro d’Italia passato proprio da qui. Il sorriso si ridimensiona alla vista del cartello “40° tornante, 1225 m s.l.m”. Ecco, sapendo che i tornanti si contano facendo la discesa e che il passo è a 2758 m di quota, diciamo che ci aspetta una bella fatica! Ma siamo qui per questo, d’altronde.

Saliamo discretamente bene e sono già passati 5km di salita, quando in una delle pausette che ovviamente ci concediamo, vediamo arrivare un ciclista in solitaria con le borse. La sorpresa di vedere finalmente un altro pazzo con ulteriori pesi ci fa felice e lo incitiamo. Ma lui si ferma, non aveva capito, infatti è svizzero e attacchiamo a parlare in inglese. Si chiama Dominic ed è di Basilea. Ci dice che si era accampato la notte un paio di curve più sotto, e che ha dormito sotto la tempesta con un ventaccio che gli piegava la tenda.

Riprendiamo a salire insieme e giungiamo, dopo una serie di gallerie, ai piedi del famoso versante sede di una spettacolare serpentina stradale con 14 tornanti consecutivi, che, casualmente, coincide anche con tratti di elevata pendenza. Teniamo duro e passiamo quota 2000 metri. Festeggiamo fermandoci in una baitina aperta dove ordiniamo delle birre per reintegrarci. “Really?” (davvero?). Chiede stupefatto Dominic. “Oh uncle! We’re more tourists than cyclists!” (oh zio! Siamo più turisti che ciclisti!).

Messe in chiaro le nostre intenzioni, riprendiamo la pedalata mentre il vento diventa insistente, portandosi con se del freddo sempre più rigido. Sarà stato per queste cose, piuttosto che per l’aria più rarefatta, o semplicemente perché per noi sono 35 km in salita con 1800 metri di dislivello, ma gli ultimi tornanti sono stati veramente veramente duri. Ma alla fine la gioia di arrivare in cima, su questa cima, è una cosa che mette da parte ogni disperazione. Siamo a 2758 metri di quota e siamo al Passo dello Stelvio! Ci siamo riusciti! Tutto intorno il circo che si addice ad un posto tanto preso di mira da ciclisti, motociclisti e, purtroppo, anche da automobilisti.

Un sacco di bancarelle e ristori, funivie che portano al ghiacciaio Livrio. Incontriamo la suocera di Manuela, che ci aveva detto di andare a trovarla, e così facciamo prendendo anche qualche doveroso ricordo. Con il magico sfondo dei ghiacciai del gruppo Ortles-Cevedale, praticamente alla nostra stessa quota, finalmente iniziamo la discesa! In una pazzesca serie di tornanti e pendenze più elevate di quelle del lato da cui siamo saliti, ci lanciamo a capofitto per 26 km perdendo quota fino ai 915 metri di Prato allo Stelvio. E siamo in Val Venosta.

La nostra meta è l’area campeggio verso il passo Resia, per cui dobbiamo, ahimè risalire fino a 1450 m. Ma non prima di aver visitato Glorenza (uno dei borghi più belli d’Italia, secondo le guide). Purtroppo, da questo momento, lo sfinimento per le energie usate mi ha messo in crisi nera per arrivare a destinazione. Con una parolaccia facevo solo 200 metri. Una media scandalosa. Con un’estrema lentezza, seguendo il corso turbolento dell’Adige, arriviamo a San Valentino alla Muta accolti dalla pioggia. Non proprio il meritato riposo, visto che dobbiamo sistemarci per la notte con la tenda in un campeggio dove il titolare non voleva farci nemmeno mettere perché pieno. Nonostante questo troviamo il nostro spazio e con Dominic andiamo a nutrirci in un ristorantino dove sia noi, che lui, ascoltavamo incuriositi il cameriere parlare con il tipico accento tirolese, ora in italiano, ora in tedesco.

Il tappone è fatto, da domani, nulla ci può impensierire!!

by fabio

viaggio in bici maggio 2014, valsugana e vajont – diario

28 maggio 2014 – Giorno 1 – Pergine – Arsiè

Sveglia alle 5:30. Massimo detto Cits è il primo a svegliarsi in quel di via Tadino 18. Io seguo a ruota (nd cits: già entri in tema ahah), ma il primo pensiero è stato: “nooooo..” nonostante fare questo viaggetto ciclistico sia una cosa a cui tengo molto. Dopo una breve colazione, siamo pronti a sellare i cavalli con le nostre borse e altri ammennicoli e a pedalare verso la vicina stazione Centrale. Alle 6:25 parte il treno per Verona, dove una volta giunti cambiamo per Trento. Attraversare la val d’Adige è bello, c’è un gran sole e il verde e l’azzurro predominano. Arriviamo alla stazione di Trento intorno alle 10:00, doppiamo la colazione in salsa trentina e poi di nuovo cambio treno, questa volta in direzione Bassano del Grappa. Seguendo questo consiglio di Riccardo abbiamo risparmiato qualche centinaio di metri di dislivello in salita.

Scendiamo a Pergine, in alta Valsugana, ci sistemiamo e partiamo seguendo le indicazioni per la pista ciclabile della Valsugana, un lungo tracciato esclusivamente ciclistico, da sogno link: http://www.piste-ciclabili.com/itinerari/83-itinerario-della-valsugana .

L’inizio non è dei più facili: oltre a perderci nei frutteti, prendiamo per sbaglio una salita improvvisa con pendenza non amichevole. È in questo momento che mi rendo conto di avere delle pesanti borse appese ai portapacchi. Ci mettiamo poco a convincerci che non è la strada giusta. Ritornati sui nostri passi, imbocchiamo finalmente la giusta pista ciclabile, che offre dei bei scorci fra il fiume Brenta e i monti attorno. Alla nostra destra, seguendo il corso del fiume, si stagliano i monti che fanno da appoggio all’altopiano di Asiago.
Alla nostra sinistra, i paesaggi a specchio del lago di Caldonazzo.

lago di caldonazzo

Giunti a Borgo Valsugana ci fermiamo per rifocillarci. C’è appena stato il mercato, ma facciamo a tempo a prendere una caciotta fresca e della soppressata per farci i panini con le baguette che ci seguono fedelmente da Milano. Inauguriamo anche la prima delle birre, all’insegna dei sali minerali. Il paese è molto caratteristico, è piacevole pranzare e abbioccarsi all’ombra di un antico ponte residuo della dominazione veneziana.
Terminata la pennica, riprendiamo il cammino. Degno di nota è questo simpatico intramezzo: durante il percorso sulla ciclabile, ci imbattiamo in un team di tagliaerba. Tutti belli e in divisa alta visibilità, con a capo due persone muniti di fischietto che appena ci vedono il più vicino lancia un fischio e tutti i tagliaerba si fermano per farci passare. In più, al nostro passaggio, un bel “buongiorno!” in coro da parte degli operai. Che servizio!
Per rendere la tappa un po’ varia e meno prevedibile, facciamo una deviazione a visitare un bel BIOTOPO detto Fontanazzo, ovvero una serie di stagni e zone umide in cui un piccolo ecosistema è in perfetto equilibrio. Lungo i sentieri sterrati a lato di prati con erba molto alta, Cits nota su un legno a bordo del sentiero un serpente nero a prendere il sole. Non sapendo se sia vipera o biscia, non ci avviciniamo troppo, ma di quel che basta per scattare qualche foto ben piazzata, cosicché i rettilone si stufa e striscia via.biscia
La valle del Brenta cambia aspetto, diventa più profonda e incisa e non lascia più spazio ai prati a lato. Infatti il pericolo di caduta massi è reale, ma la pista ciclabile è ben protetta da una specie di protezione che ricorda la gabbia degli pterodattili nell’ultimo film di Jurassic Park.

Siamo ormai giunti a Cismon del Grappa, basta Brenta, basta pista ciclabile, ma soprattutto basta discesa. Bisogna salire fino ad Arsiè che è già provincia di Belluno, e per farlo prendiamo una strada chiusa al traffico e poco mantenuta, ma bellissima per noi: si fa strada nella roccia, con tornanti molto tosti e mezze gallerie.salita da cismon
Una volta scollinati ci affacciamo su un bel balcone per ammirare il panorama in cui domina il lago del Corlo, un invaso creato da una diga dell’Enel. lago del Corlo

Da qui al campeggio link: http://www.campinglago.info è tutta discesa, arriviamo e facciamo a tempo a montare la tenda che comincia a gocciolare. Pace, ormai il più è fatto. Andiamo a cenare. La cena dei campioni consta nell’ordine in due pizze, quattro birre medie, un antipasto speck e formaggio Piave, due grappe e due fette di torta. Belli impanzonati e stanchi ci corichiamo, la pioggerellina diventa insistente e tempo due minuti diventa temporale. Che palle speriamo che la tenda regga la pioggia, dice Cits. A un certo punto, ormai vicini al sonno, percepiamo un abbaglio seguito immediatamente da un tuono che sembra una bomba esplosa di fianco a noi, con una coda ruggente che sembra infinita. “Siamo sotto un albero, dovremmo spostarci” dico io, commento del Cits: “Beh dai, ci sarà un altro albero più alto nei dintorni! Non colpirà proprio questo!”. Buonanotte.

altimetria

altimetria giorno 1

29 maggio 2014. Arsiè – Valle Imperina (Agordo)

Risveglio alle 5:00. No troppo presto! Risveglio alle 7:00, meglio. C’è il sole!! Ci sbrighiamo con una colazione frugale cappuccino e brioche, approfittiamo del bell’inizio di giornata e facciamo asciugare tenda, calze, mutande, magliette e anche noi stessi. Salutiamo il campeggio e ci mettiamo a pedalare di nuovo, cercando di seguire la via ciclabile tracciata dall’avvenente cameriera che ci ha simpaticamente servito la sera prima.

A dire la verità, il percorso non è un granché. Niente di speciale se non strade larghe in zone industriali o di collegamento. C’è di buono che la nostra direzione è Pedavena, città famosa per la fabbrica di birra, infatti, nonostante siano le 11:00 ci fermiamo al bar perennemente aperto per gustarci del nettare alcolico. Se non altro, è un po’ come pensare a un reintegro sali minerali preventivo!

pedavenaConsumata con soddisfazione la nostra bibitona, riprendiamo la pedalata seguendo un itinerario pedemontano che tocca i paesi di Cesiomaggiore (paese dei ciclisti), San Gregorio nelle Alpi e Sospirolo. Se fino a San Gregorio il tracciato è stato caratterizzato da maledetti falsipiani spacca gambe, da lì fino a Sospirolo finalmente una discesa! È la prima ed è pure molto tecnica, la velocità massima è di circa una sessantina di km/h. Missili con le borse.
A Sospirolo ci fermiamo a pranzare, in quanto è l’ultima città prima di addentrarci nel Parco delle Dolomiti Bellunesi. Durante la sosta il cielo è coperto, anzi, verso la piana del Piave il cielo ha coperto il suolo: non si distingue più dove un confine fra i due, brutto segno, pioggia a valanga.

cielo plumbeoNoi, impotenti, possiamo fare solo una cosa: scappare in direzione opposta, ovvero nella valle del Mis, la nostra direzione. Dopo aver addobbato le borse e noi stessi in modalità antipioggia, partiamo senza indugi imboccando la valle. I primi 2 km li percorriamo sotto una pioggerella che temiamo sia il fronte della tempesta alle nostre spalle, ma il cielo sembra schiarirsi sopra le nostre teste. La fiducia sale e ne approfittiamo per fermarci spesso a godere del bellissimo panorama che offrono la vallata e il lago,  un altro invaso di una diga. L’acqua ha un colore verde incredibile, che assieme a quello della vegetazione mette ancor di più in risalto le rocce affioranti fra la coltre vegetale.valle del mis, gallerie
Lasciato il lago alle nostre spalle, la valle si chiude attorno al torrente che gorgheggia con la sua acqua trasparente e la strada si fa spazio fra i fianchi del versante con delle splendide gallerie scavate nella roccia. I bei paesaggi passano in secondo piano quando cominciamo decisamente a salire, siamo a quota 500 m s.l.m. e la strada comincia a impennarsi e non smetterà fino a quota 990 m s.l.m. a Forcella Franche.

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Poco prima di raggiungere il passo, in località Tisér, ci siamo fermati a una fontanella per riempire le borracce ormai vuote. Un signore sceso da una macchina, si è avvicinato per abbeverarsi. Inevitabilmente ci siamo messi a chiacchierare con lui sul nostro itinerario, durante il discorso è venuto fuori che lui ha gareggiato per una decina di anni anche come professionista. E ci ha rivelato che ha vinto l’oro a Roma (Olimpiadi di Roma, 1960) in bicicletta. Così ha detto: “tu sai navigare in internet, no? Cerca allora Franco Testa.” Eccolo: http://it.wikipedia.org/wiki/Franco_Testa.

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Salutiamo il simpatico campione e terminiamo l’ascesa ai 990 m di quota con una rampa talmente in pendenza che è proprio da masochisti piazzarla alla fine. Per fortuna  ora ci aspetta una discesa infinita fino all’ostello della Valle Imperina. Una volta raggiunto ammiriamo con piacere come il posto, un antico complesso minierario, sia stato perfettamente restaurato e reso fruibile. Siamo gli unici ospiti. Ci sono solo il cuoco, un taciturno signore sulla sessantina, e un ragazzone aiutante. L’anziano è abbastanza inquietante, parla poco e ha un senso dell’ironia come un venditore di spazzole a una festa per calvi. Ceniamo abbondantemente come se non mangiassimo da giorni, e felicemente, alle 22 di sera, ci corichiamo su dei morbidi e asciutti letti.

valle imperina - miniere

NB: Profili altimetrici divisi in due parti causa blocco gps, il primo è Arsià – Sospirolo, il secondo dalla fine della valle del Mis fino alle miniere. Sul secondo si vede il picco in località Tiser. (Forcella Franche)

Arsià - Sospirolo

Arsià – Sospirolo

dalla fine della valle del Mis fino alle miniere

dalla fine della valle del Mis fino alle miniere

valle del mis - forcella franche

valle del mis – forcella franche

30 Maggio 2014. Valle Imperina (Agordo) – Erto (Vajont)

Al risveglio siamo sempre noi due e il cuoco con il suo aiutante. Confermo i pensieri del giorno prima: oggi però sembra più un malgaro trapiantato a forza lì in quel posto, non dice una parola e la sua unica preoccupazione è che non gli finiamo le torte. Prima di lasciare il bell’ostello, scambiamo due parole, ma giusto due, con il cuoco. Ci consiglia caldamente di lasciar perdere la salita del passo Duran, è troppo dura, soprattutto con le borse ai portapacchi. Ci invita invece a percorrere la comodo e trafficatissima strada che scende a valle. “Si si grazie, adesso ci pensiamo!”. Non attacca.
Dopo un breve giro per le miniere, ci biciclettiamo. Ed è subito salita! Dopo un paio di km, lasciamo la SR e due simpatici ciclisti in là con gli anni che ci hanno accompagnato per questo breve tratto. L’ultimo sguardo con uno dei due lascia intendere un senso di ammirazione per questi due giovani coraggiosi, ma in realtà forse era un ghigno, come per dire “babbei!”. Tecnicamente la salita è lunga circa 13 km, con un dislivello di 1000 m, mai un pezzo in piano, pendenze fra 8-10% con punte anche di 13, come si vede dal profilo altimetrico. Una lunga salita con pochissimi tornanti, solo lunghe curve e rettilinei che fanno scendere il morale a qualsiasi ciclista.

duran

Quello che non si vede dal profilo altimetrico è il bel paesaggio che scorreva intorno a noi: rigogliose foreste di conifere che fanno da slancio a imponenti massici dolomitici che si stagliano improvvisi.

duran 2A rovinare queste belle visioni c’è purtroppo un traffico veicolare intenso. Moto di tutti i tipi e noiosissimi tamarri in macchina si divertono a fare salita-discesa-salita-discesa non proprio rispettosamente, né nei nostri confronti, né nei confronti degli altri automobilisti. Dei cazzoni insomma.
Tornando alla cronaca, la salita è veramente impegnativa, e ogni 10/15 minuti è d’obbligo una pausa per tirare il fiato, per bere e per riposare un pelo le gambe. Per la prima volta sento di avere bisogno di sali minerali veri, non birra. Prendo la bustina che la mia santa ragazza ha sapientemente infilato nel kit del pronto soccorso e disciolgo la polverina nella borraccia, da cui tracanno delle ingorde sorsate. Canticchiando “Every you, every me”, riparto alla grande forte dell’effetto Placebo, che si esaurisce dopo una mezza curva quando vedo un cartello di pericolo con segnato 15%. Doh! Fanculo, piuttosto rampichino, ma non la farò mai a piedi! Alla fine dello strappo ammazza gambe, si sbuca in un bel pianoro, ormai prossimi al passo. Mi raggiunge Cits e insieme arriviamo al passo Duran, quota 1605 m sul livello del mare!

Alte vette dolomitiche (San Sebastiano e Moiazza) sembrano immense e noi piccolissimi. Un ciclista, di quelli seri, ci fa i compimenti per essere venuti su con le mountain bike e le borse, vorremmo che anche il cuoco dell’ostello fosse qui. Tempo delle gloriose foto e poi..birraaaaaaaaaaa!!

passo duran

passo duran

Purtroppo i due rifugi sono chiusi o non  troppo ospitali, quindi decidiamo di iniziare la discesa che ci porterà fino a Dont, un paese con un nome che è una meraviglia.

duran, discesaLa discesa è una bomba: la strada, non particolarmente larga, passa attraverso boschi di larici e abeti, i nevai sono a bordo strada. Ma il desiderio di non fare fatica in discesa vince, quindi non ci fermiamo a fotografare questo spettacolo che merita di essere immortalato. La discesa perde quando incrociamo un agriturismo lungo la strada. Ci scofaniamo carne secca, formaggi, salumi, gnocchi con burro, ricotta salata e pancetta, tagliatelle al ragù di cervo, caffè e grappe. Ah, ovviamente 4 birre.


Dopo la sosta ci rimettiamo in sella, un ciclista ci supera. Per Cits è un affronto, parte all’inseguimento in discesa. Io non reggo le velocità folli quindi sono più prudente e rimango un po’ più dietro, mentre Max alla fine riesce nel suo intento e il ciclista cede. Rallentano e si mettono a chiacchierare. L’amico ciclista, che ci ha preso in simpatia, si gode la discesa con noi e ci accompagna per un pezzo. A Dont ci dobbiamo fermare per fotografare il cartello del paese, ci tenevo.

dontA Forno di Zoldo il ciclista ci saluta e intraprende una salita intensa e pazzesca fino ad Astragal, con pendenza media del 16% e  punte fino al 20%.

Proseguiamo per la valle e ci impattiamo in un laghetto creato da una diga, quello che colpisce è che la diga è molto più alta della quota dell’invaso. Si vede lo scarico di superficie ormai inutilizzato (sfioro a calice, nota dell’ingegnere) e il nuovo scarico di troppo pieno.

diga lago di pontisei

È stato immediato pensare che la quota dell’invaso fosse stata abbassata per qualche problema. Ne ho la conferma quando leggo il cartello dell’Enel “lago di Pontesei”, e mi torna in mette lo spettacolo di Paolini sul Vajont: pochi anni prima del disastro che distrusse Longarone, una frana cadde nel lago di Pontesei e generò un’onda anomala che uccise il guardiano della diga. Un campanello di allarme sottovalutato, purtroppo.

diga vajont vista da longarone

diga vajont vista da longarone

Ormai la valle è finita.  Arriviamo a Longarone, appena la vista si libera sulla valle del Piave, si vede ben netta la gola con la famosa diga racchiusa fra le ripide pareti della forra. Impressionante anche da qui. A Longarone visitiamo il museo alla memoria della tragedia, ben fatto e ben documentato.

Ripartiamo con un po’ di magone alla volta di Erto. La salita, circa 4 km con dislivello di 300 m, ci impegna discretamente, ma dopo il passo Duran mi sento fortissimo! Terminata la salita, la strada si fa largo con delle belle gallerie nella roccia, ormai dovremmo essere nella valle del Vajont, si dovrebbe vedere..eccola! la diga è altissima. Slanciata fra le pareti a strapiombo della strettissima gola. Ancora più impressionante è la frana: la massa di detriti che riempie lo spazio dove c’era il lago è enorme, infatti la sommità della zona di deposito della frana è a una quota ben più alta di dove c’era l’invaso, molto più alta anche del coronamento della diga! Sul pendio del monte Toc si vede benissimo la “M” del distacco.

frana, stacco a M

frana, stacco a M

Stando qui ci si può fare un’idea di quello che è successo il 9 ottobre 1963, a casa non si può realmente comprendere. I numeri e i dati non rendono bene l’idea come invece fa la vista.

erto
Arrivati a Erto, ci addentriamo nel centro storico, quello sotto la “quota di sicurezza” di 830 m sul mare. È un bellissimo borgo, ma abbandonato in parte, di fianco a case fatiscenti e pericolanti ci sono abitazioni recentemente restaurate, cartelli di vendita ovunque. Una signora esce di casa, forse una delle poche abitanti della vecchia Erto, e ci da le indicazioni per raggiungere il bar Julia, dove dovremmo incontrare la signora Mariagiacoma che ci accompagnerà nell’abitazione del nostro albergo diffuso.

Di fianco al bar, c’è la bottega di Mauro Corona, riconoscibile dalle sculture lignee. Al bar ci prendiamo le nostre solite birrette e scambiamo quattro chiacchiere con la signora, dopodiché ci accompagna al nostro alloggio nella vecchia Erto. La nostra casa è una di quelle appena restaurate, finiture in legno nuovissimo su tre livelli, scalini impervi, porte basse.

albergo diffuso

Tempo di riprenderci e torniamo al bar trattoria di Mariagiacoma per cena, gustiamo una zuppa di ortica e del frico, tipico friulano. Davide, il figlio della proprietaria, ci da delle dritte sull’itinerario che vorremmo fare il giorno dopo in mountain bike, accompagna dunque Max su a casa per stampare la cartina, mentre io passo i 20 minuti più lunghi della mia vita con il bambino più chiacchierone di Erto: Leonardo, il figlio di Davide. Alla fine non ce la faccio più e propongo a Leonardo di salire a casa per recuperare Max, avevano finito da un sacco ma si sono persi via a raccontarsi un po’ di storie. Prima di andare via, Davide ci offre una grappa al basilico fatta da lui, non male per essere del pesto senz’aglio macerato nell’alcol! Scherzo era buona! Salutiamo e ce ne andiamo nel paese fantasma per un bel sonno al termine di questa giornata di tappa alpina.

altimetria giorno 3

altimetria giorno 3

 

31 maggio 2014. Valle del Vajont – Erto

Risveglio calmo, come l’ambiente impone, colazione con caffè della moka e pane di ieri ancora buono, preso in prestito dal cuoco dell’ostello di Valle Imperina. Oggi ci dedichiamo alla parte più da “turisti per Casso”, andiamo infatti a visitare il museo di Erto. Il posto è diviso in due sezioni, la prima prettamente fotografica sulla valle e la diga con evidenti paragoni fra il prima e il dopo 9 ottobre, la seconda parte è invece su aspetti tecnici della diga, della frana, dell’onda, delle vicende giudiziarie e sociali post tragedia. Scopriamo, grazie a una scolaresca in visita, che nel pomeriggio ci saranno delle visite guidate presso il coronamento della diga, organizzate dal Parco delle Dolomiti Friulane. erto

Passiamo quindi a prenderci dei panini all’alimentari di Erto, già che ci siamo andiamo al bar Julia a farci un paio di birrette per accompagnare i panini. Incontriamo un’altra signora, Rossana, moglie del Corona che ha l’enoteca di Erto, zio acquisito di Davide, figlio di Mariagiacoma che ci ha aiutato la sera prima con le stampe. Lo zio di Davide è anche il fratello della madre di Giada Corona, la ragazza del punto informativo alla diga. Tutti parenti, tutti Corona.

la guida

Arriva la guida, Franco. Incentra la sua spiegazione da un punto di vista globale, che tocca aspetti naturalistici, geofisici, un po’ ingegneristici, ma soprattutto sociali.

Ha coinvolto in modo particolare il racconto dell’impatto e ciò che è successo: lo spostamento di acqua indotta dalla frana ha raggiungo un altezza di 400m sopra la quota del lago, andando a lambire l’abitato di Casso che si è trovato davanti a un muro d’acqua. La successiva ripartizione dell’onda ha preso tre vie: una è ritornata indietro sul deposito della frana, quella di destra è risalita lungo la valle in direzione di Erto che si è salvata per la morfologia dei versanti. La massa che ha preso la via di sinistra, quella verso il Piave, ha tracimato la diga con un fronte di acqua alto circa 200 metri sopra il coronamento, si è infilata nell’orrido del Colomber

orrido del colomber

orrido del colomber

dove ha acquisito velocità per il restringimento imposto dalla gola, è sbucata nella valle del Piave con una violenza tale da scavare nel letto ghiaioso del fiume un buco di 60 metri di profondità, portando distruzione. Mi ha colpito la notizia che i morti di Longarone non siano annegati, non sono stati rinvenuti cadaveri con acqua nei polmoni. Ciò che ha ucciso, è stata l’aria surriscaldata per effetto della compressione indotta dall’enorme massa d’acqua in movimento. L’aria, probabilmente resa irrespirabile, ha bruciato i polmoni delle vittime. Dal coronamento abbiamo potuto vedere lo scorcio su Longarone, ed è facile vedere l’onda che corre verso l’abitato, così come ieri da Longarone è stato facile immedesimarsi negli abitanti, con una immaginaria visuale di un fronte d’acqua che esce come da un catino, grosso 160 milioni di metri cubi e alto 260 metri. Fa un certo effetto vedere la zona di distacco della frana e la sua zona di accumulo, la diga, il coronamento danneggiato con i ferri piegati, e laggiù in fondo Longarone. Sono morte 1913 persone.

diga del vajont

Terminato il tour della diga, con  un misto di felicità idraulica e sconforto, inforchiamo le bici e percorriamo la strada che sale sul deposito della frana. È bellissimo vedere come la vegetazione, la dove c’era un paesaggio lunare, si sia espansa con boschi di larici, abeti,noccioli, ontani e altre piante. Percorrendo la bella strada, alternata a fresche frasche e fredde gallerie, deviamo verso il sentiero che porta verso il torrente Vajont. Una strada ripida e sterrata ci porta nell’alveo ghiaioso dove si riesce poco a pedalare, inoltre, visto che il sentiero prosegue dall’altro lato, dobbiamo guadare!Via le scarpe, bici a mano e hop!! Acqua fottutamente gelida!

guadoPer risalire al paese il sentiero è troppo “erto”, bici a mano e spingere! Credo che avremo fatto 300 metri di dislivello, in un bosco di larici veramente magico.

La sera decidiamo di andare all’enoteca di Marco Corona, marito di Rossana del bar Julia, sorella di Mariagiacoma. Marco è felice di vederci e ci offre un bicchiere di vino che non si dovrebbe nemmeno tenere sottobanco: il clinto. Verremo poi a sapere che l’abuso di clinto provoca cecità, paralisi, dittatura, pestilenze e Chuck Norris. Ma questo non lo potevamo sapere ancora. Di fianco a noi, al nostro stesso tavolo, si siede una coppia di signori, che da subito attaccano a parlare, anzi, solo lui. Parla tantissimo, per tutta la sera, e man mano che beve le sue birre, diventa più spigliato a scapito della completezza dei discorsi. Così mentre noi ci mangiamo un tagliere rotante di salumi, lui parla e parla, concludendo ogni tanto con un “o no, Grazia?”, chiedendo conferma alla povera moglie che chissà quante volte aveva assistito a questa scena. Un altro intercalare che usa spesso, e mi fa ridere un sacco, è: “ma questa è un’altra storia”, lo mette sempre fra un discorso e l’altro in modo che non si capisca un cazzo di quel che sta raccontando. Solo l’intervento di Grazia riesce a rimette un po’ di ordine nella dialettica, mentre suo marito se la ridacchia sotto quei baffoni, pensando di condividere con noi i suoi simpatici ricordi sortendo l’effetto delle sue improbabili spiegazioni.

enoteca corona

Dopo due ore, è il momento di dire basta, così ci alziamo e cominciamo a salutare i compagni e gli altri presenti, ma non possiamo uscire senza la grappa offerta da Marco, e quindi dai!! Adesso veramente possiamo andare. Usciamo dall’enoteca salutando tutti come se fossero i nostri migliori amici, e in quel contesto forse lo sono veramente. Simpatici questi ertani del casso.

1 giugno 2014. Erto – Pordenone

Sveglia alle 7. Oggi bisogna fare un sacco di km per essere a Pordenone nel pomeriggio e prendere il treno per Milano. Andiamo dalla Maria, facciamo colazione, saldiamo il conto e salutiamo! Pronti via, facciamo un km di discesa e poi subito salita, per fortuna breve, verso il passo San Osvaldo.

passo s osvaldo

passo s osvaldo

Dal passetto, un sacco di discesa per la Valcellina a bomba fino a Barcis.

Durante il tragitto il torrente Cellina offre spettacoli con il suo colore lattiginoso per via dell’elevata torbidità, fra ciottoli e pendii pieni di verde.

Verde è anche il colore del lago in cui si specchia Barcis, ne percorriamo la sponda che non passa dal centro abitato e scegliamo bene: ci imbattiamo nell’ennesima diga, piccola, ma simile al Vajont (a doppio arco, n.d.ing.) e con sfioro a calice, un piacere idraulico. La cosa bella è che la strada passa per una piccola galleria in curva, scavata nella roccia, e continua poi sul coronamento della diga fino dall’altra parte.

Poco più avanti lungo il percorso imbocchiamo la strada vecchia della Valcellina, un itinerario di pochi km per l’antica via di collegamento ora chiusa al traffico e severamente regolata anche ai turisti in quanto riserva naturale. È molto suggestivo passare vicino alle pareti di roccia scavata: sono delle mezze gallerie, ma con sopra la testa un balconcino che sostiene un’intera parete. Anche il torrente è incredibile, nonostante il suo colore blu intenso, l’acqua è trasparentissima e si vede molto in profondità.

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Al termine del percorso siamo indecisi se continuare abusivamente sulla vecchia regionale chiusa, o se uscire dalla riserva. La prima opzione ci farebbe risparmiare un sacco di strada e di salita, ma pare che a un certo punto la strada si inabissi nell’invaso creato da una nuova diga, appena ultimata. La seconda scelta prevede inoltre una salita verso la Forcella di Pala Balzana, che a questo punto del nostro itinerario, non è che sia proprio una cosa fondamentale. Il guardiano all’uscita della riserva, ci fa capire che non sarà lui a proibirci di passare dalla strada chiusa, ma ci fa capire che il problema non è tanto la pericolosità della strada, quanto scavalcare delle recinzioni alte un paio di metri con le bici. Lasciamo perdere, facciamoci sta salita.

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Tutti ci hanno rassicurato dicendoci che se abbiamo fatto il passo Duran, questa sarà una passeggiata, noi ci crediamo quindi mettiamo le ruote in direzione Pala Barzana. In realtà, forse per la stanchezza accumulata e un po’ per le solite borse pesanti, io fatico , ma non demordo. La strada in effetti è meno pendente del passo Duran, il vantaggio di non sentirsi obbligati a fare delle pause per riprendere si sente eccome. L’ascesa è bella, ma a un certo punto la strada viene interrotta da un divieto. Ce ne freghiamo e proseguiamo. Dopo poche centinaia di metri c’è proprio un cantiere, la strada è franata! Tuttavia c’è uno spazietto sufficiente per passare, e così facciamo. Il proseguo della salita è una meraviglia, tornanti stretti, bosco fitto, ma soprattutto: NESSUNO. Spadroneggiamo fino a quota 840 m s.l.m., eccoci arrivati.

pala barzana

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Ora ci aspetta una goduriosa e lunga discesa, al sole, senza nessuno, le nostre ruote disegnano traiettorie spettacolari.
In pochissimo tempo arriviamo a Poffabro! Proprio un bel borgo. Qui incontriamo una coppia di ciclisti, Vittorino e Gabriella, da Vittorio Veneto. Con loro ci fermiamo in un osteria per pranzo, ci gustiamo degli gnocchi con un erbetta selvatica buonissima. Scambiamo delle belle chiacchiere sorseggiando la nostra immancabile birra, prendendoci il tempo che ci spetta. Ma è l’una, è ora di andare.

poffabro

poffabro

Salutiamo i signori e ci rimettiamo in sella verso la pianura, ma prima del piattume, un ultima discesa! Giungiamo a Maniago e salutiamo le Dolomiti. Verso Pordenone passiamo per il comune di Vajont, creato per ospitare gli allora sfrattati ertani e cassesi, esodati per i “rischi” del dopo tragedia. Ma non c’è tempo di fermarsi, abbiamo un treno da prendere alle 14:42! Mission impossibile.

Pedaliamo fortissimo, dandoci i cambi per aprire i varchi nell’aria e mantenendo così un’elevata andatura fra i 30-35 km/h, che per noi sono tanti.

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Arriviamo in stazione alle 14:38, giusto in tempo per fare i biglietti con supplemento bestemmie litigando con la macchinetta automatica. In treno Max trova Paolo, un suo amico cislista in compagnia di altri compari, di ritorno anche loro da un bel giro. Ma tu pensa a quanto è piccolo il mondo! Così, tutti in direzione Milano, salutiamo le strade. Adesso ci aspettano 5 ore di viaggio in cui pensare, guardare foto e scrivere di questa bella vacanza!

 

Una nota di cits: un grande grazie Fabio per  l’entusiasmo in viaggio e durante la stesura di questo appassionato diario! E’ stato un piacere averti come compare di ciclo-viaggi!

antifurto bici – pubblicità comparativa

Pubblicità  confronto:

Questa quella proposta dal corriere Skylock

Questa quella che proponiamo noi: GabryG il primo allarme per bici multimediale. Se qualcuno si avvicina alla vostra bici, lei scatta, carica la testata taurina e colpisce. è previsto anche il dispositivo di testata intelligente che riconosce i falsi allarmi e ritorna indietro. Sistema ecologico, non inquinante, onnivoro.

E’ possibile programmarlo per insultare il rapinatore in 5 lingue: Italiano, Francese, Inglese, Spagnolo e Siciliano. Sono previsti anche degli upgrade per Brianzolo e Torinese.

(Ugo)

D: Come faccio a trasportare l’antifurto insieme alla bici?

R: La rivoluzione tecnologica insita nel prodottoin oggetto  sta proprio nella comodità di non dover trasportare il dispositivo GabryG77, intatti tramite un’applicazione il GG77 si fa trovare proprio lì dove serve….al palo più vicino. a differenza di Shylock che va ad energia solare il GG77 va a Mohito, risolvendo l’annoso problema della mancanza di sole in Lombardia. L’unico effetto collaterale è che dopo tre/quattro mohito il sistema operativo del GG77 si rallenta un po’, dopo 5/6 sfasa e si deve riavviare.

tanto si doveva
(Gabry)
D: Ho capito ma a mojito mi costi più del kriptonite!
R: La qualità ha un costo. Ricordo che per il GG77 è prevista anche la versione pre-persuasiva con 20 teste di cavallo annesse per far capire da subito allo zarro di quartiere che deve abbassare lo sguardo.

La villa di mio nonno.

Decerebrazione italiana parte… ennesima diciamo, ho perso il conto:

Mio Nonno aveva una bella villa a Fizzonasco, ormai venduta dopo la sua morte. Portando mia madre al cimitero, sono passato di fronte per vedere quella bella casa signorile su cui ho tanti ricordi: Bene… sulla sinistra c’era un bellissimo balcone a sbalzo con vetrata che arrivava su fino al soffitto alto e che girava per tutto il lato nord della casa, completamente eliminato. Il muro tirato su liscio e la casa sembra essere stata “affettata” e ridotta senza senso. Sotto quel balcone, una rampa portava al box semi interrato e al laboratorio da tappezziere. Sulla sinistra ancora si alzava un muretto piastrellato in pietra e pavimento in ghiaia che portava al retro della villa, decorato con stucchi e statue di buona memoria. Tutto spianato, per dar posto ad una anonima rampa che gira attorno alla casa in cemento. A destra c’era un altro bellissimo balcone a sbalzo, sopra i lucernari del laboratorio, che affacciava su un bellissimo giardino decorato con altre statue, tre fontane, e numerosi, rigogliosi, quanto meravigliosi alberi da frutta (ciliegi, albicocchi, cachi, diversi alberi di prugni etc…) che ogni stagione regalavano frutta a chili, oggi completamente spianati per dar posto ad uno squallido gazebo da castorama, roba che neanche un terrone di Cesano Boscone!
All’ingresso, il meraviglioso pino, è stato curato “così bene” che da sempre verde, ora sembra uno spelacchiato albero gotico uscito da film di Tim Burton!!! >:(
Le porte-finestre in legno e smalto bianco, con arco a tutto sesto, decorati a stucco con doppi vetri, sono stati sostituiti da infissi rettangolari grigio-cadavere che fanno pendant con una cancellata in pseudo ferro di medesimo colore, tanto che San Vittore a confronto sembra la Reggia di Caserta! Il pergolato è ovviamente sparito e la casa sembra ora un cubo di merda! L’ingresso con scala in legno a sbalzo è stato eliminato e murato. Ne hanno creato un’altro a fianco dei nuoi squallidi infissi. Il sentiero che conduceva all’ingresso, così come il perimetro della villa, erano caratterizzati da una bellissima pavimentazione in porfido, oggi sostituita da una striscia di cemento e mattonelle da castorama!

Mia madre ha pianto. Io sono basito e arrabbiato!

Ecco io dico: ma esiste un qualche medico in grado di quantificare i chili di merda che alcune persone portano dentro al cranio?

Battesimo all’italiana.

Ti presenti in chiesa con gli amici, gente per bene, ma ti accorgi che assieme a loro il parroco celebra il battesimo di altre famiglie che ovviamente non conosci e guardandoti attorno vedi come:

1- col passare degli anni è sempre più alto il numero di puttanoni finto abbronzate, su cui trovi più terra in faccia a loro che al Trotter di San Siro! Roba che neanche al festival latino americano di Assago!

2- Parenti con giacche bianche e camicia nera, che neanche Tony Manero degradato a cameriere del “Divina”…

3- Nonostante il parroco abbia dato chiare linee guida sul come e quando fare fotografie in maniera più discreta possibile, la culona con vestito che pare un makeup di “Face Off”, cerca di fare foto sbracciando in aria un tablet 100×70, tanto da sembrare una “ring girl” in un incontro clandestino di Boxe a Scampia!

4- Leggendo il “libbricino” in dotazione, mi accorgo di come il parroco interpreta i testi, come un jazzista su un blues di Oscar Peterson.

5- Alla faccia di “Gesù vi accoglie con gioia”, il parroco ha la faccia di chi ha appena pestato una merda con le scarpe nuove.

6- La caciara con chiacchiere da comari, fa impallidire il mercato del martedì di Quartier Lavagna!

…’ndiamo bene!